Sul Corriere di ieri Maurizio Ferrera, con un articolo dal titolo "Cosi riusciamo a sprecare anche il (poco) welfare", ha posto ancora una volta sul banco degli imputati la Burocrazia (con la B maiuscola), colpevole di non far funzionare a dovere il welfare italiano ( giustamente definito “ un labirinto con procedure complesse e frammentate”) ed invocato, quale soluzione possibile, l’impegno del governo, dei governatori regionali e dei sindaci con l’aiuto di “qualche brava società di consulenza per finalmente razionalizzare le procedure, riorganizzare gli uffici, attribuire responsabilità”. Più avanti Ferrera si spinge a suggerire al governo Letta, per realizzare cose concrete a partire da gennaio, di chiedere “consigli e aiuti a soggetti esterni alla pubblica amministrazione” ed invita sindacati e partiti a collaborare, visto che “se le cose non funzionano la colpa è anche loro” ( anche?).
Sono un assiduo lettore del Corsera e seguo con interesse le cose che scrive Ferrera.Essendo io quello che viene definito un “alto burocrate”, mi sono sentito direttamente chiamato in causa dall’articolo, e così ho deciso di spiegare perché, sulla base della mia esperienza professionale, non mi riconosco nelle cose scritte da Ferrera sia per quanto riguarda i presupposti del suo ragionamento che, in parte, per le soluzioni che propone.
Nei presupposti. Sempre più spesso sento parlare di Burocrazia come se questa fosse un corpo unico e omogeneo, e non una realtà dalle mille facce, alcune anche buone e positive. Molti dei mali italiani sono attribuiti alla “burocrazia” così come una volta si diceva del “sistema” e più recentemente della “politica”; io sono convinto che se c’è una cosa dalla quale dobbiamo urgentemente liberarci in questo Paese sono le generalizzazioni; la politica e i partiti non sono tutti uguali; gli imprenditori non sono tutti uguali; i giornali ed i giornalisti non sono tutti uguali.
La burocrazia non è un corpo unico, ma un mondo composito di strutture, persone, procedimenti, realtà ed articolazioni dove – assieme a tante cose negative – si trovano situazioni di eccellenza ed esempi di efficienza perfino superiori al mitico settore privato. Nella mia esperienza lavorativa ho avuto la fortuna di guidare numerosi uffici, dal Sud al Nord del Paese,dove – assieme ad una piccola quota di lavativi, variabile secondo le latitudini – ho avuto il privilegio di lavorare con persone eccezionali, in possesso di capacità non comuni, rapide, veloci, efficienti, innovative: gente che nel privato se la sognano, che guadagna quattro soldi e che malgrado ciò ci mette anima ed ingegno, ed a cui non puoi dare altro che riconoscimenti morali e pacche sulle spalle!
E’ su queste risorse eccellenti a costo zero che governo e partiti dovrebbero puntare per (finalmente) come vuole Ferrera, “razionalizzare le procedure, riorganizzare gli uffici” (perché loro sanno dove e come intervenire per migliorare le cose) e non sulle mitiche e costosissime società di consulenza (peraltro in questi anni il ricorso a società esterne di consulenza è stato uno degli sport preferiti nella pubblica amministrazione, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti).
Nelle soluzioni. L’esperienza che faccio tutti i giorni come direttore regionale Inps,la più importante struttura di welfare a livello europeo, mi ha fatto capire una cosa: per far funzionare l’Italia bisogna fare un’imponente e vasta opera di semplificazione, altrimenti il potere di interdizione di chi ha interesse a frenare il cambiamento rischia di aumentare sempre più, portandoci alla paralisi definitiva. Non basta quindi lo “sportello unico” suggerito da Ferrera, che pure sarebbe una cosa importantissima: se poi il funzionario che sta allo sportello per risolvere il problema del cittadino dovrà rivolgersi a tre/quattro uffici diversi, i tempi saranno comunque troppo lunghi rispetto ai bisogni di quel cittadino ed alla necessità di dare efficienza al sistema. Semplificare significa, rimanendo nel campo del welfare, evitare che sulla stessa prestazione si incrocino competenze di enti diversi e significa anche che la responsabilità e la gestione del processo di erogazione delle prestazioni deve essere dell’Ente che mette i soldi.
Oggi le cose non funzionano così. Faccio solo due esempi molto emblematici.
La cassa integrazione in deroga. Attualmente essa è finanziata dallo Stato, decretata dalle Regioni, pagata dall’Inps. Il risultato è che le aziende presentano le domande, la Regione può deliberare solo dopo aver ottenuto i fondi dal Ministero, l’Inps può pagare dopo aver ricevuto i decreti regionali e controllato che i lavoratori abbiano i requisiti di legge: passano mesi e mesi e ciò nonostante la grande efficienza delle nostre strutture, visto che in media in Lombardia l’Inps paga la cassa in deroga entro 25 giorni dalla ricezione dei decreti regionali ( e cioè ben 35 giorni in meno di quanto preveda la nostra Carta dei servizi). Io credo che non ci sia bisogno di società di consulenza per capire che se questa catena fosse accorciata i tempi si ridurrebbero al minimo: basterebbe individuare un soggetto unico per la gestione - sia esso l’Inps o la Regione, anche se sarebbe più corretto l’Inps ,visto che i finanziamenti sono statali – per tagliare un bel pezzo di “burocrazia”; ma questa, ne converrà Ferrera, è una decisione che devono prendere Governo e Regioni, non gli alti o bassi burocrati.
L’invalidità civile. La legge prevede che la prestazione sia erogata entro 120 giorni dalla domanda. La competenza sull’accertamento sanitario è in parte delle regioni – tramite le ASL – ed in parte dell’INPS, cui spetta la decisione finale. In Lombardia in questi anni abbiamo fatto miracoli e siamo riusciti ad ottenere che il 43,3% delle domande siano liquidate entro 120 giorni, siamo in questo tra le regioni più virtuose d’Italia. Tuttavia ci troviamo ancora (nell’avanzata Lombardia!) con molte ASL che ci inviano i verbali cartacei invece che in formato telematico (con conseguente allungamento dei tempi e possibilità che si verifichino errori) e con le ASL più vaste ( es. Milano) nelle quali chi ha fatto domanda viene chiamato a visita non prima di 80/90 giorni, salvo che non sia malato oncologico. E’ del tutto evidente che in queste condizioni il termine dei 120 giorni è impossibile rispettarlo. Anche in questo caso non ci vuole la società di consulenza per capire che se tutto il processo accertativo fosse affidato all’INPS i tempi sarebbero dimezzati: d’altronde, visto che i soldi per le indennità li mette lo Stato, una logica di normale semplificazione vorrebbe che ad occuparsene fosse una struttura dello Stato. Quanto alla responsabilità riguardo il mancato rispetto di un termine di legge, di chi è? Dell’Inps? Delle ASL? Il cittadino come fa a capirlo? Un gestore unico non lascerebbe dubbio alcuno!
Potrei fare molti altri esempi, ma mi fermo qui.
Un’ultima annotazione riguarda un campo estraneo alle mia attività professionale, quello dello sviluppo dell’occupazione, cui si riferisce la seconda parte dell’articolo di Ferrera. Tra le tante proposte in campo, non ho sentito nessuno(nemmeno Renzi) formulare quella dell’abolizione del potere che gli Ordini professionali hanno nell’abilitare i neolaureati all’esercizio della professione: questa è una delle più pesanti barriere corporative che rendono difficoltoso l’ingresso nel mondo del lavoro di tantissimi giovani dopo anni e anni di fatica estudio. In questo Paese la liberalizzazione del mondo del lavoro è stata fatta ai livelli più bassi ed ha riguardato soprattutto il lavoro manuale. Come mai nel campo delle professioni cosiddette libere ciò non è avvenuto e nessuno ne parla?
sabato 28 dicembre 2013
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