sabato 28 dicembre 2013

Appello per un Paese semplice

Sul Corriere di ieri Maurizio Ferrera, con un articolo dal titolo "Cosi riusciamo a sprecare anche il (poco) welfare", ha posto ancora una volta sul banco degli imputati la Burocrazia (con la B maiuscola), colpevole di non far funzionare a dovere il welfare italiano ( giustamente definito “ un labirinto con procedure complesse e frammentate”) ed invocato, quale soluzione possibile, l’impegno del governo, dei governatori regionali e dei sindaci con l’aiuto di “qualche brava società di consulenza per finalmente razionalizzare le procedure, riorganizzare gli uffici, attribuire responsabilità”. Più avanti Ferrera si spinge a suggerire al governo Letta, per realizzare cose concrete a partire da gennaio, di chiedere “consigli e aiuti a soggetti esterni alla pubblica amministrazione” ed invita sindacati e partiti a collaborare, visto che “se le cose non funzionano la colpa è anche loro” ( anche?).

Sono un assiduo lettore del Corsera e seguo con interesse le cose che scrive Ferrera.Essendo io quello che viene definito un “alto burocrate”, mi sono sentito direttamente chiamato in causa dall’articolo, e così ho deciso di spiegare perché, sulla base della mia esperienza professionale, non mi riconosco nelle cose scritte da Ferrera sia per quanto riguarda i presupposti del suo ragionamento che, in parte, per le soluzioni che propone.

Nei presupposti. Sempre più spesso sento parlare di Burocrazia come se questa fosse un corpo unico e omogeneo, e non una realtà dalle mille facce, alcune anche buone e positive. Molti dei mali italiani sono attribuiti alla “burocrazia” così come una volta si diceva del “sistema” e più recentemente della “politica”; io sono convinto che se c’è una cosa dalla quale dobbiamo urgentemente liberarci in questo Paese sono le generalizzazioni; la politica e i partiti non sono tutti uguali; gli imprenditori non sono tutti uguali; i giornali ed i giornalisti non sono tutti uguali. 
La burocrazia non è un corpo unico, ma un mondo composito di strutture, persone, procedimenti, realtà ed articolazioni dove – assieme a tante cose negative – si trovano situazioni di eccellenza ed esempi di efficienza perfino superiori al mitico settore privato. Nella mia esperienza lavorativa ho avuto la fortuna di guidare numerosi uffici, dal Sud al Nord del Paese,dove – assieme ad una piccola quota di lavativi, variabile secondo le latitudini – ho avuto il privilegio di lavorare con persone eccezionali, in possesso di capacità non comuni, rapide, veloci, efficienti, innovative: gente che nel privato se la sognano, che guadagna quattro soldi e che malgrado ciò ci mette anima ed ingegno, ed a cui non puoi dare altro che riconoscimenti morali e pacche sulle spalle! 
E’ su queste risorse eccellenti a costo zero che governo e partiti dovrebbero puntare per (finalmente) come vuole Ferrera, “razionalizzare le procedure, riorganizzare gli uffici” (perché loro sanno dove e come intervenire per migliorare le cose) e non sulle mitiche e costosissime società di consulenza (peraltro in questi anni il ricorso a società esterne di consulenza è stato uno degli sport preferiti nella pubblica amministrazione, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti). 

Nelle soluzioni. L’esperienza che faccio tutti i giorni come direttore regionale Inps,la più importante struttura di welfare a livello europeo, mi ha fatto capire una cosa: per far funzionare l’Italia bisogna fare un’imponente e vasta opera di semplificazione, altrimenti il potere di interdizione di chi ha interesse a frenare il cambiamento rischia di aumentare sempre più, portandoci alla paralisi definitiva. Non basta quindi lo “sportello unico” suggerito da Ferrera, che pure sarebbe una cosa importantissima: se poi il funzionario che sta allo sportello per risolvere il problema del cittadino dovrà rivolgersi a tre/quattro uffici diversi, i tempi saranno comunque troppo lunghi rispetto ai bisogni di quel cittadino ed alla necessità di dare efficienza al sistema. Semplificare significa, rimanendo nel campo del welfare, evitare che sulla stessa prestazione si incrocino competenze di enti diversi e significa anche che la responsabilità e la gestione del processo di erogazione delle prestazioni deve essere dell’Ente che mette i soldi. 

Oggi le cose non funzionano così. Faccio solo due esempi molto emblematici. 

La cassa integrazione in deroga. Attualmente essa è finanziata dallo Stato, decretata dalle Regioni, pagata dall’Inps. Il risultato è che le aziende presentano le domande, la Regione può deliberare solo dopo aver ottenuto i fondi dal Ministero, l’Inps può pagare dopo aver ricevuto i decreti regionali e controllato che i lavoratori abbiano i requisiti di legge: passano mesi e mesi e ciò nonostante la grande efficienza delle nostre strutture, visto che in media in Lombardia l’Inps paga la cassa in deroga entro 25 giorni dalla ricezione dei decreti regionali ( e cioè ben 35 giorni in meno di quanto preveda la nostra Carta dei servizi). Io credo che non ci sia bisogno di società di consulenza per capire che se questa catena fosse accorciata i tempi si ridurrebbero al minimo: basterebbe individuare un soggetto unico per la gestione - sia esso l’Inps o la Regione, anche se sarebbe più corretto l’Inps ,visto che i finanziamenti sono statali – per tagliare un bel pezzo di “burocrazia”; ma questa, ne converrà Ferrera, è una decisione che devono prendere Governo e Regioni, non gli alti o bassi burocrati. 

L’invalidità civile. La legge prevede che la prestazione sia erogata entro 120 giorni dalla domanda. La competenza sull’accertamento sanitario è in parte delle regioni – tramite le ASL – ed in parte dell’INPS, cui spetta la decisione finale. In Lombardia in questi anni abbiamo fatto miracoli e siamo riusciti ad ottenere che il 43,3% delle domande siano liquidate entro 120 giorni, siamo in questo tra le regioni più virtuose d’Italia. Tuttavia ci troviamo ancora (nell’avanzata Lombardia!) con molte ASL che ci inviano i verbali cartacei invece che in formato telematico (con conseguente allungamento dei tempi e possibilità che si verifichino errori) e con le ASL più vaste ( es. Milano) nelle quali chi ha fatto domanda viene chiamato a visita non prima di 80/90 giorni, salvo che non sia malato oncologico. E’ del tutto evidente che in queste condizioni il termine dei 120 giorni è impossibile rispettarlo. Anche in questo caso non ci vuole la società di consulenza per capire che se tutto il processo accertativo fosse affidato all’INPS i tempi sarebbero dimezzati: d’altronde, visto che i soldi per le indennità li mette lo Stato, una logica di normale semplificazione vorrebbe che ad occuparsene fosse una struttura dello Stato. Quanto alla responsabilità riguardo il mancato rispetto di un termine di legge, di chi è? Dell’Inps? Delle ASL? Il cittadino come fa a capirlo? Un gestore unico non lascerebbe dubbio alcuno! 

Potrei fare molti altri esempi, ma mi fermo qui. 

Un’ultima annotazione riguarda un campo estraneo alle mia attività professionale, quello dello sviluppo dell’occupazione, cui si riferisce la seconda parte dell’articolo di Ferrera. Tra le tante proposte in campo, non ho sentito nessuno(nemmeno Renzi) formulare quella dell’abolizione del potere che gli Ordini professionali hanno nell’abilitare i neolaureati all’esercizio della professione: questa è una delle più pesanti barriere corporative che rendono difficoltoso l’ingresso nel mondo del lavoro di tantissimi giovani dopo anni e anni di fatica estudio. In questo Paese la liberalizzazione del mondo del lavoro è stata fatta ai livelli più bassi ed ha riguardato soprattutto il lavoro manuale. Come mai nel campo delle professioni cosiddette libere ciò non è avvenuto e nessuno ne parla?

domenica 7 marzo 2010

Interpretazioni ( de li decreti e d'altro ancora)

Li soprani der monno vecchio

C’era una volta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
- Io so’ io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.

Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pozzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.

Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo -.

Co st’editto annò er boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e, arisposero tutti: E’ vvero, è vvero.

(Giuseppe Gioacchino Belli- 1832)
—————————–
Traduzione

I sovrani del mondo vecchio
C’era una volta un Re che dal palazzo
emanò ai popoli quest’editto:
- Io sono io, e voi non siete un cazzo,
signori vassalli imbroglioni, e state zitti.

Io rendo diritto lo storto e storto il diritto:
posso vendervi tutti a un tanto al mazzo:
Io, se vi faccio impiccare, non vi faccio un torto,
perché la vita e la roba Io ve le do in affitto.

Chi abita in questo mondo senza il titolo
o di Papa, o di Re, o d’Imperatore,
quello non può avere mai voce in capitolo -.

Con quest’editto andò il boia per corriere,
interrogando tutti sull’argomento;
e, tutti risposero: E’ vero, è vero.

sabato 9 gennaio 2010

Se lo Stato è come le tre scimmiette

Rosarno, Calabria,Italia.Il ghetto degli immigrati clandestini era già stato oggetto di reportage giornalistici su testate importanti.
Rosarno come Latina, come la Puglia e la Campania. Manovalanza a basso prezzo a disposizione di aziende in mano alle cosche o comunque gestite da gente che non si fa tanti scrupoli; uomini senza diritti e perciò sfruttabili e ricattabili a piacimento.
Una situazione socialmente esplosiva, destinata prima o poi a scoppiare, com'è regolarmente avvenuto. Tutti quelli del posto lo sapevano: tutti, politici e autorità preposte alla sicurezza compresi.
Da calabrese ormai disilluso, voglio porre qualche semplice domanda: com'è che giornalisti venuti da fuori in due giorni hanno capito tutto, hanno descritto nei minimi particolari il meccanismo illegale che prevede l'utilizzazione degli immigrati attraverso il loro assoldamento quotidiano da parte di caporali che li caricano in macchie e furgoni e li portano nei campi a sgobbare per una paga da fame? Come mai i giornalisti hanno visto e raccontato tutto ciò con dovizia di particolari e le stesse cose, che avvengono tutti i giorni, dalle prime ore dell'alba a mattinata inoltrata non li vedono le forze dell'ordine? Come mai in questo Paese dove tutti sono fotografati,filmati, intercettati, i caporali possono agire impunemente alla luce del sole, senza nessuno che li individui e li arresti in flagrante?
Se in certe zone del Sud lo Stato si comporta come le mitiche tre scimmiette, di che parliamo?

domenica 6 dicembre 2009

Giornalismo spazzatura

Rispondendo ad una lettera inviata al suo giornale, il direttore de "Il Giornale", Vittorio Feltri,a proposito della vicenda Boffo (il direttore di Avvenire costretto a dimettersi dopo una violentissima campagna stampa scatenatagli contro proprio da Feltri) ha testualmente scritto:
"Nonostante ciò, personalmente non mi sarei occupato di Dino Boffo, giornalista prestigioso e apprezzato, se non mi fosse stata consegnata da un informatore attendibile, direi insospettabile, la fotocopia del casellario giudiziale che recava la condanna del direttore a una contravvenzione per molestie telefoniche. Insieme, un secondo documento (una nota) che riassumeva le motivazioni della condanna. La ricostruzione dei fatti descritti nella nota, oggi posso dire, non corrisponde al contenuto degli atti processuali. Infatti, da quelle carte, Dino Boffo non risulta implicato in vicende omosessuali, tantomeno si parla di omosessuale attenzionato".
Le ragioni per le quali Feltri ha operato l'ennesima azione di killeraggio a mezzo stampa sono note a tutti e su di esse è inutile soffermarsi.
Quello che qui mi preme sottolineare è che in qualsiasi corso per giornalisti principianti la prima regola che ti insegnano è che per diventare un buon giornalista ( un buon giornalista, non una firma di grido) devi innanzi tutto imparare a controllare l'attendibilità delle tue fonti e della notizia: il giornalismo, quello vero, quello che fa un servizio ai lettori, prima verifica e dopo pubblica; se prima pubblica e poi verifica è giornalismo-spazzatura.

lunedì 13 aprile 2009

C'è un tempo per ogni cosa

Quando sei giovane sei giovane, e se ti va di dire o fare una cosa, la dici o la fai, punto e basta.
Man mano che cresci, che diventi una persona, come si dice, “matura”, impari che c’è un tempo per ogni cosa.
C’è un tempo per scherzare ed un tempo per essere seri; uno per lavorare ed uno per rilassarsi o divertirsi; uno per piangere ed uno per ridere;uno per avere pazienza ed uno per incavolarsi.
Sì, c’è proprio un tempo per tutto.
Che tempo era, per il nostro Paese, la settimana scorsa, dopo che un terremoto devastante ha messo in ginocchio L’Aquila ed i suoi dintorni, con centinaia di morti e feriti, intere contrade rase al suolo, decine di migliaia di sfollati, alcune decine di persone disperse?
Era il tempo dei soccorsi, del lavoro a testa bassa per tirare fuori i superstiti intrappolati; estrarre i morti dalle macerie ; ricoverare gli sfollati; curare i feriti; soccorrere i più deboli. Abbiamo sentito dire: scaveremo fino a Pasqua, perché c’è ancora speranza dopo cinque-sei giorni di trovare qualche superstite. Venerdì ci sono stati i funerali di gran parte delle vittime, e mentre si celebravano le esequie, poco distante venivano recuperati altri corpi. Hanno continuato a scavare, fino a quando la conta finale si è fermata a 293 morti e di dispersi non ce n’erano più.
Con l’ultimo morto estratto dalle macerie, è finito il primo tempo di questa tragedia abruzzese ed italiana.
C’è un tempo per tutto. Ora che la conta dei morti è finita, che la prima emergenza è passata, il Paese può rialzare la testa da quelle macerie e cominciare a ragionare ed a porsi domande, a sviscerare dubbi a cercare risposte, a polemizzare se è necessario.
Sta innanzi tutto qui, in questo clamoroso errore sulla scelta dei tempi, lo sbaglio principale di Michele Santoro e della sua trasmissione “Annozero”, andata in onda giovedì di Pasqua e tutta costruita attorno alla necessità di mettere nel mirino da un lato il sistema della Protezione civile italiana, e dall’altro le collusioni affaristico-politiche che da sempre alimentano la devastazione del Belpaese.
Personalmente ritengo quella trasmissione ( intitolata “Resurrezione”) una delle peggiori performance di Santoro dal punto di vista prettamente giornalistico, e tuttavia – al di là delle opinioni che ciascuno di noi può avere sul contenuto della trasmissione – ciò che mi ha scioccato quella sera stessa, mentre la guadavo in diretta, è stata proprio la tempistica: ma come è possibile, mi domandavo, che si apra una polemica così dura contro la Protezione civile, mentre ancora la stessa Protezione civile è impegnata allo spasimo nei primi soccorsi?
Quando c’è una guerra, prima si combatte il nemico, lo si caccia fuori dai propri confini o lo si annienta, poi ci si divide, ci si scontra, si regolano i conti interni. La guerra col nemico terremoto era ancora in corso, e già si sparava sul quartier generale!!!
C’è un tempo per ogni cosa: sarebbe bastato che Santoro posticipasse la sua trasmissione di una settimana, e non ci sarebbe stato nulla da eccepire, almeno sotto il profilo della correttezza e del rispetto di una comunità nazionale impegnata a reagire ad una sciagura di così vaste proporzioni: finita la conta dei morti, fatti i funerali, apprestati i primi soccorsi, sotto a chi tocca, facciamo l’esame spietato dei problemi e delle responsabilità.
Il che non significa che Santoro doveva rinunciare al suo “Annozero” nella settimana del terremoto, tutt’altro. Avrebbe potuto fare una trasmissione con un taglio diverso, più da servizio pubblico, per esempio mandando i suoi inviati invece che nella comoda Piazza d’Armi a fare domandine pilotate per ottenere risposte funzionali alla tesi su cui è stata costruita la trasmissione, su nei dintorni de L’Aquila, tra le contrade ed i paesi di più difficile accessibilità, facendo vedere agli italiani le condizioni dei terremotati meno esposti ai riflettori dei media ( e quindi più facilmente trascurati); magari descrivendo i problemi di un’economia rurale, agricola ed artigiana totalmente paralizzata e messa in ginocchio dal sisma ( il primo servizio degno di questo nome sull’argomento l’ho visto su La7 sabato di Pasqua); e tutto ciò non per criticare o cercare colpevoli, ma per sensibilizzare, suggerire – con l’emergenza in corso – la necessità di far fronte a bisogni non adeguatamente attenzionati dai responsabili politici e dalla stessa Protezione civile: questo sì sarebbe stato un modo per fare informazione militante ( come piace a Santoro) ma nel contempo solidale (come richiedeva l’emergenza in corso e la sensibilità del Paese).
Infine un’ultima annotazione: tra gli invitati alla trasmissione c’erano De Magistris - pm in corsa per il Parlamento europeo con Di Pietro - e Claudio Fava – esponente di spicco della nuova lista Sinistra e Libertà. La domanda è: perché loro due? Si tratta di due esponenti politici con una qualche competenza e/o esperienza specifica in materia di terremoti? De Magistris è un magistrato che nel corso della sua attività ha fatto inchieste post terremoto, in zone soggette a ricostruzioni, ecc.? Claudio Fava è stato sindaco di qualche città che ha subito terremoti o calamità? E’ stato componente di organismi tecnici e/o istituzionali che si sono occupati della protezione civile? Niente di tutto questo. Ed allora, i due che c’azzeccavano nella trasmissione? Erano lì per dare un contributo qualificato sull’argomento o solo perché Santoro gli vuole tirare la volata elettorale, facendoli uscire dall’anonimato di una campagna per le europee quanto mai difficile? Per me, la seconda che ho detto : e questa è un’altra delle cose sgradevoli di quella trasmissione.

domenica 29 marzo 2009

Viva i giornali (liberi e indipendenti)

Il congresso di fondazione del PDL mi ha dato l’occasione di riflettere su quanto sia indispensabile per la libertà di un paese la presenza di una molteplicità di giornali; talmente indispensabile da farmi ritenere che i giornali siano una delle poche cose private che meritino un finanziamento pubblico. Naturalmente è necessario individuare forme di finanziamento che garantiscano l’indipendenza e l’autonomia delle testate, criteri trasparenti ed imparziali nell’erogazione dei contributi, ecc.ecc. Ciò che mi sembra davvero importante e fondamentale, comunque, è che le difficoltà di mercato non portino ad una progressiva eliminazione del pluralismo informativo, perché ciò minerebbe alle basi la democrazia nel nostro Paese.
Qualcuno dirà: ma questo pistolotto, che c’azzecca col congresso del PDL? C’azzecca,c’azzecca.
La mattina, quando posso, seguo alla radio la rassegna stampa (ne trovate diverse a vari orari: 7,15-8,00 su Rai3; 7,30-8,00 su Radio24; 7,30-8,30 su radio Radicale; 8,30-9,15 su GRparlamento).
Sabato mattina ho potuto così avere una panoramica sui commenti dei vari giornali sulla giornata di apertura del congresso di fondazione del PDL e sul discorso inaugurale di Berlusconi,che avevo visto in televisione la sera prima sui vari TG e integralmente su SKY.
Man mano che la lettura dei giornali andava avanti, avevo modo di gustare, sì, proprio “gustare”, la ricchezza di analisi, gli stimoli alla riflessione, la “decodificazione” di quanto avvenuto alla Nuova Fiera di Roma.
La televisione ci aveva trasmesso l’immagine patinata ,tutta ben costruita scenograficamente, di un leader e della sua apoteosi: un’informazione per sua stessa natura accattivante ma sbrigativa, e perciò – nel bene e nel male- massificante. Il giornale no, la sua lettura ti costringe a ragionare, ad approfondire, a cogliere aspetti che l’occhio della telecamera non riesce a penetrare. Così mi sono ritrovato a riflettere su come la lettura dei giornali aveva contribuito a modificare l’opinione che sul congresso del PDL mi ero fatta la sera prima davanti alla Tv.
Molti – specie a sinistra - sono convinti che il successo politico di Berlusconi derivi dal suo dominio televisivo, e, conseguentemente, ritengono che per contrastare Berlusconi bisogna innanzi tutto togliergli qualche televisione. Fermo restando che il conflitto d’interessi è un problema vero e che sarebbe il caso che venisse finalmente affrontato e risolto con una normativa seria, io credo che l’antidoto vero al “grande fratello” televisivo sia aiutare le persone a farsi una propria opinione,a ragionare con la propria testa, a non mandare il cervello all’ammasso: in questo i giornali sono una strumento indispensabile, perciò la loro esistenza, autonomia ed indipendenza vanno difese e tutelate.

P.S.:tra i vari commenti sulla nascita del PDL, ve ne segnalo due a mio avviso particolarmente illuminanti: “Conservatori e liberali”, di Luca Ricolfi su “La Stampa”; e “Il Messia perenne.Quindici anni ed è sempre nuovo”, di Antonio Polito su “Il Riformista”.
Infine, vi segnalo che sul sito Governo.it c’è un’ottima e pressoché completa rassegna stampa quotidiana.

martedì 17 marzo 2009

Solidarietà nazionale per uscire dalla crisi

In tempo di crisi, c'è un gran discutere attorno alle soluzioni per uscirne.
Ognuno ha la sua, e non c'è giorno senza una richiesta di categoria, una proposta governativa, una o più controposte di chi sta all'opposizione, una qualche impennata sindacale.
C'è un ingrediente, tuttavia, che mi pare manchi totalmente nelle più svariate ricette che ci vengono proposte: è la solidarietà. Nessuna categoria, nessun ceto sociale o professionale sembra disposto a rinunciare a qualcosa per il bene comune.
Forse sono un nostalgico di Berlinguer, che,con un'impronta quasi francescana,seppe indicare lo stile di vita dell'"austerità" come risposta collettiva alla crisi economica che colpì l'Italia dopo la crisi energetica del 73, ma credo che solo un progetto radicalmente solidale può evitare che l'attuale congiutura si trasformi in dramma sociale per milioni di persone.
Sotto questo profilo, polici e sindacalisti dovrebbero cominciare a dare il buon esempio, magari convocando un "tavolo" ( come lo chiamano in gergo) per decidere assieme i tagli da operare ai privilegi ed alle prebende di cui godono.
Il compito non sarebbe nemmeno così complicato: basterebbe prendere due libri - "La casta" di G.Stella e S. Rizzo, e "L'altra casta" di S.Livadiotti - per individuare con rapidità gli interventi immediati per ridurre a livelli sopportabili per un paese civile i privilegi delle caste poliche e sindacali, quantificare i risparmi così ottenuti e destinarli ad obiettivi concreti ( per esempio nuovi ammortizzatori sociali per i precari).
Dando il buon esempio, politici e sindacalisti sarebbero davvero legittimati a chiedere ad altre categorie la rinuncia ai propri privilegi e la partecipazione ad un progetto di "solidarietà nazionale" in grado di contrastare la crisi e ridare al Paese fiducia nel futuro.