domenica 6 dicembre 2009

Giornalismo spazzatura

Rispondendo ad una lettera inviata al suo giornale, il direttore de "Il Giornale", Vittorio Feltri,a proposito della vicenda Boffo (il direttore di Avvenire costretto a dimettersi dopo una violentissima campagna stampa scatenatagli contro proprio da Feltri) ha testualmente scritto:
"Nonostante ciò, personalmente non mi sarei occupato di Dino Boffo, giornalista prestigioso e apprezzato, se non mi fosse stata consegnata da un informatore attendibile, direi insospettabile, la fotocopia del casellario giudiziale che recava la condanna del direttore a una contravvenzione per molestie telefoniche. Insieme, un secondo documento (una nota) che riassumeva le motivazioni della condanna. La ricostruzione dei fatti descritti nella nota, oggi posso dire, non corrisponde al contenuto degli atti processuali. Infatti, da quelle carte, Dino Boffo non risulta implicato in vicende omosessuali, tantomeno si parla di omosessuale attenzionato".
Le ragioni per le quali Feltri ha operato l'ennesima azione di killeraggio a mezzo stampa sono note a tutti e su di esse è inutile soffermarsi.
Quello che qui mi preme sottolineare è che in qualsiasi corso per giornalisti principianti la prima regola che ti insegnano è che per diventare un buon giornalista ( un buon giornalista, non una firma di grido) devi innanzi tutto imparare a controllare l'attendibilità delle tue fonti e della notizia: il giornalismo, quello vero, quello che fa un servizio ai lettori, prima verifica e dopo pubblica; se prima pubblica e poi verifica è giornalismo-spazzatura.

lunedì 13 aprile 2009

C'è un tempo per ogni cosa

Quando sei giovane sei giovane, e se ti va di dire o fare una cosa, la dici o la fai, punto e basta.
Man mano che cresci, che diventi una persona, come si dice, “matura”, impari che c’è un tempo per ogni cosa.
C’è un tempo per scherzare ed un tempo per essere seri; uno per lavorare ed uno per rilassarsi o divertirsi; uno per piangere ed uno per ridere;uno per avere pazienza ed uno per incavolarsi.
Sì, c’è proprio un tempo per tutto.
Che tempo era, per il nostro Paese, la settimana scorsa, dopo che un terremoto devastante ha messo in ginocchio L’Aquila ed i suoi dintorni, con centinaia di morti e feriti, intere contrade rase al suolo, decine di migliaia di sfollati, alcune decine di persone disperse?
Era il tempo dei soccorsi, del lavoro a testa bassa per tirare fuori i superstiti intrappolati; estrarre i morti dalle macerie ; ricoverare gli sfollati; curare i feriti; soccorrere i più deboli. Abbiamo sentito dire: scaveremo fino a Pasqua, perché c’è ancora speranza dopo cinque-sei giorni di trovare qualche superstite. Venerdì ci sono stati i funerali di gran parte delle vittime, e mentre si celebravano le esequie, poco distante venivano recuperati altri corpi. Hanno continuato a scavare, fino a quando la conta finale si è fermata a 293 morti e di dispersi non ce n’erano più.
Con l’ultimo morto estratto dalle macerie, è finito il primo tempo di questa tragedia abruzzese ed italiana.
C’è un tempo per tutto. Ora che la conta dei morti è finita, che la prima emergenza è passata, il Paese può rialzare la testa da quelle macerie e cominciare a ragionare ed a porsi domande, a sviscerare dubbi a cercare risposte, a polemizzare se è necessario.
Sta innanzi tutto qui, in questo clamoroso errore sulla scelta dei tempi, lo sbaglio principale di Michele Santoro e della sua trasmissione “Annozero”, andata in onda giovedì di Pasqua e tutta costruita attorno alla necessità di mettere nel mirino da un lato il sistema della Protezione civile italiana, e dall’altro le collusioni affaristico-politiche che da sempre alimentano la devastazione del Belpaese.
Personalmente ritengo quella trasmissione ( intitolata “Resurrezione”) una delle peggiori performance di Santoro dal punto di vista prettamente giornalistico, e tuttavia – al di là delle opinioni che ciascuno di noi può avere sul contenuto della trasmissione – ciò che mi ha scioccato quella sera stessa, mentre la guadavo in diretta, è stata proprio la tempistica: ma come è possibile, mi domandavo, che si apra una polemica così dura contro la Protezione civile, mentre ancora la stessa Protezione civile è impegnata allo spasimo nei primi soccorsi?
Quando c’è una guerra, prima si combatte il nemico, lo si caccia fuori dai propri confini o lo si annienta, poi ci si divide, ci si scontra, si regolano i conti interni. La guerra col nemico terremoto era ancora in corso, e già si sparava sul quartier generale!!!
C’è un tempo per ogni cosa: sarebbe bastato che Santoro posticipasse la sua trasmissione di una settimana, e non ci sarebbe stato nulla da eccepire, almeno sotto il profilo della correttezza e del rispetto di una comunità nazionale impegnata a reagire ad una sciagura di così vaste proporzioni: finita la conta dei morti, fatti i funerali, apprestati i primi soccorsi, sotto a chi tocca, facciamo l’esame spietato dei problemi e delle responsabilità.
Il che non significa che Santoro doveva rinunciare al suo “Annozero” nella settimana del terremoto, tutt’altro. Avrebbe potuto fare una trasmissione con un taglio diverso, più da servizio pubblico, per esempio mandando i suoi inviati invece che nella comoda Piazza d’Armi a fare domandine pilotate per ottenere risposte funzionali alla tesi su cui è stata costruita la trasmissione, su nei dintorni de L’Aquila, tra le contrade ed i paesi di più difficile accessibilità, facendo vedere agli italiani le condizioni dei terremotati meno esposti ai riflettori dei media ( e quindi più facilmente trascurati); magari descrivendo i problemi di un’economia rurale, agricola ed artigiana totalmente paralizzata e messa in ginocchio dal sisma ( il primo servizio degno di questo nome sull’argomento l’ho visto su La7 sabato di Pasqua); e tutto ciò non per criticare o cercare colpevoli, ma per sensibilizzare, suggerire – con l’emergenza in corso – la necessità di far fronte a bisogni non adeguatamente attenzionati dai responsabili politici e dalla stessa Protezione civile: questo sì sarebbe stato un modo per fare informazione militante ( come piace a Santoro) ma nel contempo solidale (come richiedeva l’emergenza in corso e la sensibilità del Paese).
Infine un’ultima annotazione: tra gli invitati alla trasmissione c’erano De Magistris - pm in corsa per il Parlamento europeo con Di Pietro - e Claudio Fava – esponente di spicco della nuova lista Sinistra e Libertà. La domanda è: perché loro due? Si tratta di due esponenti politici con una qualche competenza e/o esperienza specifica in materia di terremoti? De Magistris è un magistrato che nel corso della sua attività ha fatto inchieste post terremoto, in zone soggette a ricostruzioni, ecc.? Claudio Fava è stato sindaco di qualche città che ha subito terremoti o calamità? E’ stato componente di organismi tecnici e/o istituzionali che si sono occupati della protezione civile? Niente di tutto questo. Ed allora, i due che c’azzeccavano nella trasmissione? Erano lì per dare un contributo qualificato sull’argomento o solo perché Santoro gli vuole tirare la volata elettorale, facendoli uscire dall’anonimato di una campagna per le europee quanto mai difficile? Per me, la seconda che ho detto : e questa è un’altra delle cose sgradevoli di quella trasmissione.

domenica 29 marzo 2009

Viva i giornali (liberi e indipendenti)

Il congresso di fondazione del PDL mi ha dato l’occasione di riflettere su quanto sia indispensabile per la libertà di un paese la presenza di una molteplicità di giornali; talmente indispensabile da farmi ritenere che i giornali siano una delle poche cose private che meritino un finanziamento pubblico. Naturalmente è necessario individuare forme di finanziamento che garantiscano l’indipendenza e l’autonomia delle testate, criteri trasparenti ed imparziali nell’erogazione dei contributi, ecc.ecc. Ciò che mi sembra davvero importante e fondamentale, comunque, è che le difficoltà di mercato non portino ad una progressiva eliminazione del pluralismo informativo, perché ciò minerebbe alle basi la democrazia nel nostro Paese.
Qualcuno dirà: ma questo pistolotto, che c’azzecca col congresso del PDL? C’azzecca,c’azzecca.
La mattina, quando posso, seguo alla radio la rassegna stampa (ne trovate diverse a vari orari: 7,15-8,00 su Rai3; 7,30-8,00 su Radio24; 7,30-8,30 su radio Radicale; 8,30-9,15 su GRparlamento).
Sabato mattina ho potuto così avere una panoramica sui commenti dei vari giornali sulla giornata di apertura del congresso di fondazione del PDL e sul discorso inaugurale di Berlusconi,che avevo visto in televisione la sera prima sui vari TG e integralmente su SKY.
Man mano che la lettura dei giornali andava avanti, avevo modo di gustare, sì, proprio “gustare”, la ricchezza di analisi, gli stimoli alla riflessione, la “decodificazione” di quanto avvenuto alla Nuova Fiera di Roma.
La televisione ci aveva trasmesso l’immagine patinata ,tutta ben costruita scenograficamente, di un leader e della sua apoteosi: un’informazione per sua stessa natura accattivante ma sbrigativa, e perciò – nel bene e nel male- massificante. Il giornale no, la sua lettura ti costringe a ragionare, ad approfondire, a cogliere aspetti che l’occhio della telecamera non riesce a penetrare. Così mi sono ritrovato a riflettere su come la lettura dei giornali aveva contribuito a modificare l’opinione che sul congresso del PDL mi ero fatta la sera prima davanti alla Tv.
Molti – specie a sinistra - sono convinti che il successo politico di Berlusconi derivi dal suo dominio televisivo, e, conseguentemente, ritengono che per contrastare Berlusconi bisogna innanzi tutto togliergli qualche televisione. Fermo restando che il conflitto d’interessi è un problema vero e che sarebbe il caso che venisse finalmente affrontato e risolto con una normativa seria, io credo che l’antidoto vero al “grande fratello” televisivo sia aiutare le persone a farsi una propria opinione,a ragionare con la propria testa, a non mandare il cervello all’ammasso: in questo i giornali sono una strumento indispensabile, perciò la loro esistenza, autonomia ed indipendenza vanno difese e tutelate.

P.S.:tra i vari commenti sulla nascita del PDL, ve ne segnalo due a mio avviso particolarmente illuminanti: “Conservatori e liberali”, di Luca Ricolfi su “La Stampa”; e “Il Messia perenne.Quindici anni ed è sempre nuovo”, di Antonio Polito su “Il Riformista”.
Infine, vi segnalo che sul sito Governo.it c’è un’ottima e pressoché completa rassegna stampa quotidiana.

martedì 17 marzo 2009

Solidarietà nazionale per uscire dalla crisi

In tempo di crisi, c'è un gran discutere attorno alle soluzioni per uscirne.
Ognuno ha la sua, e non c'è giorno senza una richiesta di categoria, una proposta governativa, una o più controposte di chi sta all'opposizione, una qualche impennata sindacale.
C'è un ingrediente, tuttavia, che mi pare manchi totalmente nelle più svariate ricette che ci vengono proposte: è la solidarietà. Nessuna categoria, nessun ceto sociale o professionale sembra disposto a rinunciare a qualcosa per il bene comune.
Forse sono un nostalgico di Berlinguer, che,con un'impronta quasi francescana,seppe indicare lo stile di vita dell'"austerità" come risposta collettiva alla crisi economica che colpì l'Italia dopo la crisi energetica del 73, ma credo che solo un progetto radicalmente solidale può evitare che l'attuale congiutura si trasformi in dramma sociale per milioni di persone.
Sotto questo profilo, polici e sindacalisti dovrebbero cominciare a dare il buon esempio, magari convocando un "tavolo" ( come lo chiamano in gergo) per decidere assieme i tagli da operare ai privilegi ed alle prebende di cui godono.
Il compito non sarebbe nemmeno così complicato: basterebbe prendere due libri - "La casta" di G.Stella e S. Rizzo, e "L'altra casta" di S.Livadiotti - per individuare con rapidità gli interventi immediati per ridurre a livelli sopportabili per un paese civile i privilegi delle caste poliche e sindacali, quantificare i risparmi così ottenuti e destinarli ad obiettivi concreti ( per esempio nuovi ammortizzatori sociali per i precari).
Dando il buon esempio, politici e sindacalisti sarebbero davvero legittimati a chiedere ad altre categorie la rinuncia ai propri privilegi e la partecipazione ad un progetto di "solidarietà nazionale" in grado di contrastare la crisi e ridare al Paese fiducia nel futuro.

martedì 24 febbraio 2009

Veltroni,il PD e i troppi "ma anche"

C'e una espressione che mi ha particolarmente colpito quando è nato il Partito democratico: “Riformismo radicale”. Sono, infatti,sempre più convinto che è di questo che il Paese ha bisogno: un riformismo vero,basato sui valori "storici" della sinistra democratica: giustizia,solidarietà,equità,merito.
Veltroni , per storia politica e personale, sembrava il leader giusto per dare gambe a questo progetto. La stessa investitura attraverso le primarie ed i contenuti della sua proposta politica parevano confermare questa possibilità.
Nessuno può negare che la nascita del PD veltroniano abbia avuto l'effetto di suscitare in una larga fetta dell'elettorato di centrosinistra la speranza di un grande cambiamento. E qui sta,a mio avviso,la principale colpa di Veltroni e del PD: aver deluso quei milioni di cittadini che non ne possono più della vecchia politica e di vedere un Paese che, per parafrasare due fortunati libri di Gian Antonio Stella,è prigioniero di troppe "caste" che lo stanno portando alla "deriva".
Voglio citare, a tale proposito, tre esempi di speranze tradite.
1) Il precariato.L'argomento è stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale di Veltroni; sul tema del precariato e del lavoro per i giovani nessuna proposta concreta è però venuta dal PD,malgrado il partito abbia al suo interno fior di giuslavoristi,come Pietro Ichino, che da tempo vanno proponendo l'unica soluzione in grado di coniugare in maniera ragionevole le esigenze di flessibilità del mercato del lavoro con la tutela dei giovani : l'introduzione del contratto unico a tempo indeterminato, con possibilità di licenziamento da parte delle imprese ma anche con tutele crescentiper i giovani con il passare del tempo e un sistema efficace e generalizzato di ammortizzatori sociali (la cosiddetta "flexsecurity"). Nè alcuna iniziativa concreta e venuta dal PD sull'altro versante decisivo per l'accesso dei giovani al mercato del lavoro: la liberalizzazione delle professioni, con la conseguente abolizione degli ordini professionali e lo smantellamento dei privilegi che tutelano le varie "caste" professionali e favoriscono in molti settori la trasmissione "ereditaria" o per cooptazione della professione.
2) I costi della politica. Anche su questo versante, molte chiacchiere e niente fatti. Eppure sarebbe bastato essere coerenti con gli impegni elettorali, per esempio avanzando una proposta concreta di abolizione delle Provincie ed altri enti non indispensabili, quantificando i relativi risparmi e proponendo che tali somme fossero destinate a creare ammortizzatori sociali per i giovani precari. Sui costi della politica ha fatto molto di più il tanto vituperato Brunetta, con la riduzione per legge delle consulenze nella PA, che tutto il centrosinistra con le sue chiacchiere.
3) L'organizzazione deł partito. Non so cosa è successo al nord, ma in Calabria le cosiddette "primarie" per l'elezione dei segretari provinciali si sono svolte seguendo gli schemi classici dell'intesa preventiva tra i capicorrente.Dietro la foglia di fico dell'unità e della concordia, abbiamo assistito ai riti tribali della vecchia politica : niente a che vedere, insomma, con i propositi di cambiamento e di rinnovamento più volte sbandierati.

Naturalmente, se Veltroni ed il PD avessero imboccato la strada del "riformismo radicale", non pochi sarebbero stati i conflitti e le tensioni interne al partito e con i mondi di riferimento (basti pensare alla posizione della CGIL sul contratto unico e la conseguente abolizione dei vincoli al licenziamento).
E tuttavia, i fatti hanno dimostrato che con l'ambiguità,il traccheggiamento, i troppi "ma anche" non si va da nessuna parte, e poco alla volta si perdono per strada anche quanti avevano sperato che con il PD la politica in Italia potesse cambiare marcia.

lunedì 9 febbraio 2009

Se la Chiesa scende in campo

Sulla vicenda di Eluana Englaro molto – troppo- si è già scritto e detto, e non sarò certamente io ad aggiungere parole a parole.
C’è un aspetto però, sul quale, come persona di formazione cattolica, vorrei soffermarmi, perché a mio avviso esso costituisce un elemento di rottura nei rapporti tra la Chiesa e lo Stato in Italia.
La dottrina sociale della Chiesa, a partire dal Concilio Vaticano II,è stata improntata sul principio fondamentale dell’autonomia della sfera civile da quella religiosa. In proposito, basti citare questo passaggio della Gaudium et Spes:
Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistare una vera perizia in quei campi. Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e ne assicurino la realizzazione. Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero.”
Dalla Gaudium et Spes in poi numerosi documenti ecclesiali hanno ribadito la responsabilità dei laici cattolici nel concreto impegno socio-politico e nella scelta delle soluzioni tecniche, riservando alla Chiesa la funzione profetica di affermazione dei valori religiosi, di formazione ed orientamento delle coscienze.
Ed è proprio su questo punto che quanto è accaduto a proposito della vicenda Englaro lascia perplessi. Infatti, la Chiesa italiana, attraverso le prese di posizione di suoi altissimi rappresentanti, non si è limitata a proclamare e difendere il valori della tutela della vita in tutte le sue forme,anche le più sofferenti, ma è intervenuta pesantemente e direttamente nel conflitto istituzionale che si è aperto tra Governo e Presidenza della Repubblica. Nel momento in cui si esprime un parere fortemente positivo sulla decisione del Governo di approvare un decreto legge e si censura il Presidente della Repubblica che quel decreto ha ritenuto di non poter emanare, si entra in una valutazione diretta degli strumenti che uno Stato laico deve utilizzare e si scende sostanzialmente in campo nel conflitto politico.
Se davanti a quanto è accaduto venerdì scorso attorno al decreto-legge i rappresentanti della Conferenza episcopale – così come peraltro ha fatto il Papa in più occasioni – si fossero spesi, pur con comprensibile enfasi,per ribadire che la Chiesa sostiene tutte le iniziative che possono preservare la vita, chiedendo che si trovassero anche gli strumenti legislativi più idonei per perseguire tale scopo, nessuno avrebbe potuto sollevare delle perplessità. La scelta ,invece, di dare un giudizio sulle soluzioni tecniche adottate espone la Chiesa al rischio di essere considerata “parte” attiva dello scontro tra opposti schieramenti, con tutte le conseguenze negative del caso anche in riferimento alla stressa autonomia ed autorevolezza della missione ecclesiale.
C’è poi un altro aspetto da considerare. Se la Chiesa si avventura nella valutazione delle soluzioni tecniche più idonee che uno Stato deve adottare a difesa della vita, qualcuno potrà chiedergli conto del perché la stessa Chiesa non faccia una battaglia altrettanto energica contro la vendita indiretta da parte dello Stato di sigarette ed alcol (vendita dalla quale lo Stato ricava corposi introiti), atteso che fumo ed alcol – è scientificamente ed inoppugnabilmente provato – sono la causa diretta di tante malattie incurabili e di tantissimi morti…..

domenica 1 febbraio 2009

Scala, don Natali!

Qualche giorno fa, il Partito Democratico ha tenuto le sue “primarie”. Come in altre parti della Calabria, anche a Reggio il candidato alla segreteria provinciale era unico: nel nostro caso Giuseppe Strangio,uomo di fiducia del capo indiscusso del PD reggino,il presidente del Consiglio regionale Peppe Bova, alle cui dipendenze Peppe Strangio lavora in qualità di Capo gabinetto.
A proposito di questo rito plebiscitario impropriamente definito “primarie”,numerosi esponenti del PD ne hanno esaltato il significato di grande partecipazione e democrazia.
A me, a leggere certe dichiarazioni, è tornato in mente quando ero ragazzino ed insieme agli altri miei compagni di scorribande andavo a vedere il teatrino di don Natale (in dialetto “don Natali”), che ci faceva divertire con un’approssimativa opera dei pupi siciliani.
La scena era sempre la stessa: don Natale faceva il suo spettacolino e,ad un certo punto, per esaltare le gesta dell’Orlando furioso,esclamava:”E allora Orlando, da solo uccise 10.000 saraceni!”; a quel punto dal pubblico qualcuno di noi gridava: “Scala, don Natali!”; e don Natale di rimando:”E allora Orlando, da solo uccise 5000 saraceni!”; e un’altra voce:”Scala, don Natali!”; il gioco al ribasso continuava fino a quando don Natale, esausto, si rassegnava a fornire un numero che per noi ragazzini era più credibile: “ E allora Orlando , da solo uccise 50 saraceni!”: l’applauso finale sanciva l’accordo al ribasso tra il puparo ed i suoi spettatori, e tutti rientravamo a casa contenti e divertiti.
Tornando alle cosiddette “primarie”, il presidente del Consiglio regionale Bova ha dichiarato a Paolo Toscano di Gazzetta del Sud:” Chiunque abbia davvero a cuore democrazia, libertà e uguaglianza non può non gioire per il modo come il Pd della provincia di Reggio elegge il suo segretario ed i suoi dirigenti: in tanti, in maniera del tutto trasparente, con la preferenza e col voto segreto”.
Davanti a queste dichiarazioni, voglio tornar bambino: scala, don Peppe!

lunedì 19 gennaio 2009

Il "segnale" di Napolitano

Il presidente della repubblica Napolitano nella sua recente visita in Calabria ha accuratamente evitato di incontrare in forma ufficiale i rappresentanti politici calabresi.
Commentando il fatto,Pino Galati , già parlamentare UDC e oggi PDL, ha affermato che la decisione di Napolitano di non incontrare le Istituzioni della Regione rapppresenta un brutto segnale.
Probabilmente è vero che per i politici calabresi quanto è accaduto ha rappresentato un brutto segnale: quello che è certo è che per i cittadini calabresi si è trattato di un segnale chiaro, molto chiaro.

sabato 10 gennaio 2009

Saladino il benefattore

Antonio Saladino, l’imprenditore calabrese al centro della vicenda Why Not,ha dichiarato ai giudici che lo indagano e fatto sapere ai giornali, che lui ha solo offerto lavoro a chi non ne aveva,svolgendo così una funzione di pubblica utilità.
Visto il contesto in cui si muove Saladino - la cattolicissima Compagnia delle Opere – verrebbe da chiedere , se non si rischiasse la blasfemia, di farlo santo subito.
Probabilmente Saladino crede davvero a quello che dice, e come lui la pensano i tanti politici e funzionari pubblici che sono stati complici di questa vasta operazione clientelare che ha visto l’assunzione di centinaia di giovani nelle varie imprese gestite da Saladino e chiamate con appalti ed affidamenti compiacenti a fornire servizi a Regione ed Enti vari.
Forse però, un serio esame di coscienza – tanto per restare sul terreno religioso – potrebbe consentire a Saladino ed ai suoi sodali di prendere atto che chi fa clientela in contesti di sottosviluppo come quello calabrese e meridionale in genere è doppiamente colpevole:1) perché toglie la dignità ai tanti giovani e alle loro famiglie che si devono piegare a questi sistemi per ottenere un lavoro; 2) perché toglie la speranza alle migliaia di giovani ed alle loro famiglie che non hanno trovato il canale giusto, o, più semplicemente, si sono rifiutati di svendere la propria dignità perché si ostinano ancora a credere che studio e sacrificio, competenza ed impegno debbono essere sufficienti per trovare un lavoro, anche a costo di lasciare la propria terra.